di ANTONIO LUDOVICO
Tato Sabadini, un fulmine sulla fascia.
Se non avesse sfondato nel calcio, probabilmente avrebbe fatto il marmista, se non avesse giocato tanti anni in serie A, avrebbe potuto invece fare il podista.
Tutti sanno che avere in squadra un terzino di fascia veloce e sgusciante è come avere un turbo nel motore, una spina nel fianco costante e pericolosa per gli avversari. Negli anni Settanta l’Italia calcistica abbondava di terzini, sia marcatori puri che finte ali.
Il posto di Sabadini, Tato per gli amici, era in quest’ultima categoria, ossia in quella formata da giocatori versatili, dai piedi buoni e, all’occorrenza, rapidi in zona gol: in pratica, una manna dal cielo per ogni allenatore. Parlare di Sabadini è un po’ come scomodare le querce, dare voce a quegli atleti inossidabili che riescono a macinare chilometri senza stancarsi mai, dei piccoli maratoneti prestati all’arte pedatoria.
In più, il nostro Tarzan, così come veniva apostrofato dai tifosi milanisti, possedeva una dote aggiuntiva che faceva la differenza: il colpo di testa, caratteristica che mise a frutto in particolar modo contro gli “odiati” cugini interisti.
Ma quella di Tato o Tarzan, anche se Nereo Rocco lo chiamava Lampadina, è una storia fatta non solo di calcio di ottima fattura nella Scala del calcio italiano, ma anche di serate goliardiche nei club rossoneri con la chitarra in mano e magari anche un bicchiere di vino.
Al Milan di Rocco arrivò, insieme ad Albertino Bigon e Riccardo Sogliano, dalla Samp di Fulvio Bernardini e fu amore a prima vista, anche perché quel giovane capellone friulano (della provincia di Gorizia) in cuor suo era un tifoso del diavolo rossonero.
La storia narra poi di tante battaglie all’arma bianca su e giù per la fascia, dodici gol nel carniere, tantissimi duelli vinti con i migliori attaccanti italiani e poi una Coppa delle Coppe stravinta contro il Leeds di Jordan, due Coppe Italia ed almeno due scudetti sfiorati, senza dimenticare l’amarezza della “fatal Verona” del 20 maggio 1973.
Lo ricordo benissimo a Catanzaro (arrivò in pompa magna insieme a Ramon Turone) dove disputò quattro campionati di altissimo livello, sempre a organizzare scorribande sulle fasce, destra o sinistra faceva poca importanza, ma la gente tutta, con cui attualmente ha un buon rapporto, lo ricorda anche per le sue doti umane, di persona amabile e mite, sicuramente un uomo dotato di grande umiltà.
E pensare che stiamo parlando di uno che ha giocato al fianco di Rivera per sette anni, che ha vestito tutte le maglie azzurre (nazionale maggiore, under 23 e under 21), che ha partecipato alla spedizione dei mondiali del ‘74 in Germania, quindi non proprio uno sprovveduto o una meteora del calcio.
Solo che, a differenza di tanti altri campioni più celebrati, Tato ha preferito adagiarsi dietro le quinte, non illuminarsi sotto finti riflettori, non cedere alla inutile auto celebrazione.
Uomo di sostanza, di sentimenti veri, un distinto signore che si ferma con tutti per le strade, che ha dimostrato sempre grande disponibilità al dialogo.
Doti che, guarda caso, non collimano con i piani alti di un Palazzo che talvolta non sa scegliere bene i propri inquilini.
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